Bielorussia
L’identità di genere è un concetto sempre più fluido nelle società occidentali, ma in Bielorussia ogni identità non ufficialmente approvata dal regime autoritario può avere pericolose conseguenze, soprattutto per un transgender.
Katerina Barushka
autore
Birgit Püve
fotografo
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MINSK – Alina cammina verso casa lungo le grandi strade di Minsk. Le vetrine piene di attraenti marche occidentali riflettono la sua forte e un po’ timida figura, vestita semplicemente in nero. La sua folta capigliatura ondulata e i calzini a strisce colorate contrastano il grigio tutto intorno a lei.
Dieci anni fa, arrivò a Minsk da una piccola cittadina di provincia in cerca di un lavoro e, cosa più importante, della sua identità. Avendo studiato in un istituto tecnico vicino al suo villaggio, si mantiene rinnovando appartamenti e facendo dei lavori edilizi minori per un’impresa privata. La sua stessa vita sembra essere un cantiere aperto.
Alina vive in un freddo e polveroso appartamento che al momento sta rinnovando per mettere da parte qualche soldo. Dorme su un materasso consunto sul pavimento, tiene tutti i suoi averi in uno sgangherato guardaroba e fa il bucato in un catino. Aver trovato un lavoro è per lei un grande traguardo: senza sarebbe stata costretta a pagare una tassa sulla disoccupazione, soprannominata “tassa sui parassiti”, recentemente introdotta dal governo. Con un sorriso nervoso sulle labbra ci chiede di non parlarle in inglese sotto casa. «I vicini sono già sospettosi, non voglio attirare ancora di più la loro attenzione».
Trentatre anni fa, Alina nasceva uomo. In un paese come la Bielorussia la decisione di vivere secondo il proprio intimo sentimento di sé e della propria identità sessuale è un atto di estrema ribellione, una sfida sia allo stato che alla società nel suo insieme.
Durante più di due decadi al potere, il Presidente Alexander Lukashenko, da molti considerato come l’ultimo dittatore d’Europa, è riuscito a portare la Bielorussia in fondo alla maggior parte delle classifiche in tema di diritti umani. Una serie di misteriose sparizioni di importanti oppositori politici all’inizio del nuovo millennio, violente repressioni di proteste pacifiche, un controllo ferreo dei media e la pena di morte, sono tutte realtà quotidiane in Bielorussia.
Dopo le elezioni presidenziali del 2010 sette dei nove sfidanti di Lukashenko furono perseguiti penalmente per aver organizzato dimostrazioni di massa. Il suo tasso di gradimento non è mai sceso sotto l’ottanta per cento e non esiste ricerca sociologica indipendente nel paese. L’ultima protesta pacifica in seguito ad una acuta crisi economica nel 2011, portò decine di migliaia di persone in strada, ma seguirono centinaia di arresti.
«Qui ogni istituzione ha diritto di parola su come dovrei vivere- dice Alina- Tutto quello che voglio è cambiare il mio passaporto e prendermi cura di me stessa». Per cambiare ufficialmente sesso una persona transessuale deve registrarsi presso un centro psichiatrico. Solo dopo un esame medico completo da parte di una commissione composta dal Ministero della Difesa, dell’Educazione, della Giustizia, degli Interni e della Salute, si riceve il nulla osta. Dopo un anno e mezzo, se vengono seguite tutte le regole, si può effettuare un’operazione di cambiamento di sesso gratuita: qualcosa che non succede in nessun’altra parte del mondo. Il primo cambiamento di sesso in Bielorussia fu condotto nel 1992. Al contrario il sesso tra individui dello stesso sesso è rimasto un crimine fino al 1994. Secondo le statistiche tra 70 e 150 persone hanno ottenuto un’operazione da allora.
Alina ciononostante ha deciso di non seguire il piano dello stato. Questa decisione le lascia maggiore libertà per sé, ma nessun riconoscimento ufficiale della sua scelta e il ricorso al mercato nero per i trattamenti ormonali.
Molti transessuali devono affrontare questa scelta in Bielorussia. Se lascia che lo stato la controlli e si prenda cura di lei, potrebbe barcamenarsi in qualche modo. Se decide di essere autonoma, verrebbe vista come una rompiscatole: qualcuno per la quale l’arresto arbitrario, una forte attenzione dei media, e la paura della violenza o persino della morte sono crude realtà della vita in Bielorussia. Come Mikalai Statkevich, uno dei candidati indipendenti alle elezioni presidenziali del 2010, che ha passato cinque anni e mezzo in prigione o l’attivista per i diritti umani e nominato per il Premio Nobel per la Pace Ales Bialiatski, che è stato incarcerato per tre anni sulla base di dubbie accuse di evasione fiscale riguardanti il centro per i diritti umani che dirigeva e che ha aiutato migliaia di persone a resistere al regime.
L’ultimo tentativo della comunità LGBTQ di fondare un’organizzazione risale al 2013. Il risultato è che 69 su 72 membri fondatori sono stati interrogati dal KGB (sì, in Bielorussia si chiama ancora così il servizio segreto). Alcuni sono fuggiti all’estero, altri sono entrati in clandestinità. Agire nel nome di un’organizzazione non registrata è un crimine punibile fino a due anni di reclusione.
Recentemente una nuova iniziativa per aiutare giovani LGBTQ e le loro famiglie ha iniziato a organizzarsi e a cercare il riconoscimento. In un paese dove le persone LGBTQ rischiano di essere picchiate a morte, la presenza di queste organizzazioni è disperatamente necessaria.
Questa triste realtà sembra irreale nel centro di Minsk, pieno di caffè e casinò. I giovani, incoraggiati dal governo e dal resto del mondo, si rivolgono al consumismo nella loro ricerca di identità. La Bielorussia vanta uno dei maggior numeri di visti Schengen pro capite, così naturalmente tanti hanno un’idea di cosa voglia dire vivere un’intrigante vita europea. Senza un’atmosfera veramente liberale, però, i posti più alla moda di Minsk sono destinati a rimanere una pallida imitazione della vita sociale occidentale.
In agosto, la polizia ha fatto irruzione nella strada più costosa e alla moda di Minsk e ha arrestato una dozzina di persone che erano uscite in strada a fumare dopo aver bevuto birra. Infatti, non è permesso essere ubriachi in pubblico in Bielorussia. I bielorussi, però, sono ai vertici mondiali nel consumo di alcool e ovunque si vada, si incontrano persone ubriache. Fra tutti i lavoratori stanchi che si incontrano nei sobborghi, le autorità preferiscono però punire gli hipster che vogliono dimenticare lo stato delle cose nascondendosi in bar da snob. Non sorprende che Alina non ami uscire. «Ci sono un paio di posti dove mi trovo abbastanza bene. Possono sembrare carini, ma solo a visitatori stranieri. Io so che è solo una facciata».
«Mia madre mi odia per questo mio voler essere me stessa. Mi ricorda sempre che sono nato uomo e che nessuno rispetta la mia scelta, nè a casa e nè a lavoro». L’ultima volta che Alina ha visto la sua famiglia è stato quattro anni fa. Lei parla regolarmente al telefono con sua sorella, ma ogni conversazione finisce con un litigio. Non sente nessuno dei suoi vecchi amici. Nella sua città natale, sua sorella lavora come mungitrice in un kolhoz (una fattoria collettiva), e guadagna 80 dollari al mese. Però, è a Minsk che Alina vuole vivere.
Per Alina il più grande vantaggio di Minsk è che non ci sono persone che conoscono la sua identità precedente
Alina ha realizzato di essere nata nel corpo sbagliato e
anche nel paese sbagliato
Una città fantasma con un migliaio di anni di storia, la capitale fu parzialmente distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale e poi rasa al suolo per ordine di Stalin. Lo spirito del comunismo domandò un sacrificio completo, così da poter ricostruire una nuova città, in tutta la sua sovietica gloria. Il fotografo Artur Klinau disse che Minsk doveva servire come porta dell’Impero Sovietico, doveva impressionare per la vastità e pulizia delle sue strade, ma restare piccola e provinciale, così da non oscurare Mosca. A molti sembra una città morta con le sue piazze e i suoi palazzi deserti. Ogni essere umano è meramente decorativo.
Per Alina il più grande vantaggio di vivere a Minsk è che le persone non conoscono la sua identità precedente. Nella capitale lei può lavorare e guadagnare 250 dollari al mese, di cui almeno 40 se ne vanno per il suo trattamento ormonale.
Le chiediamo se questo è ciò che si aspettava dalla vita. Alina risponde che è alla fine è meglio di quel che immaginava negli anni novanta quando era ancora un bambino. All’epoca aveva già capito di essere nata nel corpo sbagliato, e forse anche nel paese sbagliato. Non lo ammetterebbe mai pubblicamente, però.
«Hai sentito dei trattamenti psichiatrici punitivi? Questo è tutto ciò che c’era per me in una piccola cittadina. Ero troppo terrorizzata per parlare. Era già abbastanza duro sopportare il fatto che il mio patrigno mi picchiasse senza ragione. La prima volta che realizzai di non essere l’unica al mondo in questa condizione fu all’inizio del millennio, quando lessi una pubblicità per il cambiamento di sesso in una rivista per adolescenti».
È difficile trovare lo spirito di una comunità LGBTQ in Bielorussia. Alina parla in termini negativi degli unici due gruppi esistenti, offesa dal fatto che non sanno come aiutarla. Questo è un limite che riguarda molte associazioni attive nella difesa dei diritti umani in Bielorussia. Dovendosi barcamenare tra lotte individuale e rivendicazioni personali per così tanto tempo, le persone non hanno voglia di unirsi per combattere per una causa comune.
In Bielorussia non importa se sei transessuale, protestante o suoni in un gruppo alternativo. In un regime che calpesta l’individualità, ogni tentativo di essere fedeli a sé stessi è un atto di sfida. Se giochi secondo le regole di Lukashenko, c’è sempre la possibilità che lo stato ti lasci stare. Alina ha fatto una scelta coraggiosa: vivere la sua vita restando fedele a sé stessa. Nel fare ciò, ha raggiunto una libertà diversa e più profonda di coloro che scelgono la via del conformismo.
Nonostante questo, il suo coraggio non annulla la paura. «Sono terrorizzata dall’iniziare una relazione- confessa- se riuscissi a convincere qualcuno che sono veramente una donna e per caso scoprisse la verità, non mi picchierebbero. Mi ucciderebbero».